Pubblicati da Matteo Marchesini

Business Plan e Valuation, l’utilità oltre il fundraising

Nel mondo startup, due temi chiave emergono a più riprese (a volte diventando onnipresenti) sono business plan e valuation. Sebbene questi concetti siano spesso associati al momento di fundraising e alla conseguente presentazione agli investitori, la loro importanza va ben oltre.

L’obiettivo di questo approfondimento è quindi esplorare più da vicino l’importanza del business plan non solo come strumento di attrazione per gli investitori, ma anche come guida operativa interna e dare dei criteri sul processo di valuation di una startup evidenziando come essa rappresenti un punto di partenza “flessibile” soggetto a molteplici fattori e dinamiche di mercato, piuttosto che un valore immutabile.

PENSARE UN BUSINESS PLAN: QUALE IL SUO UTILIZZO?

Come accennato, il business plan non è solo un documento formale, necessario per attrarre finanziamenti, ma è la pietra angolare su cui si fonda l’intera strategia operativa dell’azienda. Il suo compito è quello di servire come guida dettagliata per delineare gli obiettivi aziendali, le strategie per raggiungerli e i piani operativi e finanziari per mantenere l’impresa su un percorso di crescita sostenibile.

Il documento finale provvisto anche di financial plan deve definire chiaramente: mission, vision, gli obiettivi a breve e lungo termine dell’impresa (roadmap), le attività messe in piedi per raggiungerli (piano delle attività, business model e piano marketing) e le ricadute economiche e finanziarie di questo agire. In questo senso, risulta evidente come un business plan ben realizzato, non sia solo un documento fondamentale per la due diligence dell’investitore, ma aiuti direttamente i founder e il team a mantenere il focus su ciò che conta di più in un dato momento storico di vita dell’azienda e a lavorare verso obiettivi comuni, riducendo il rischio di dispersione e di sforzi disorganizzati. Inoltre, un business plan ben articolato che presenta attività, task e sub-task (gantt) chiari, facilita la comunicazione interna, allineando le aspettative e le responsabilità di tutti i membri del team.

Una nota specifica è in merito alla parte di pianificazione finanziaria (il cui output è reso quasi sempre reso in excel). Un buon business plan infatti deve contenere un financial plan coerente con gli obiettivi dell’azienda. Questo documento risulta tanto fondamentale per la valutazione dell’investitore durante la due diligence che per i/il founder. L’obiettivo è infatti quello di ragione e capire quali siano i flussi di cassa previsti (in termini di revenue, costi da sostenere e cash flow), le esigenze di finanziamento (definizione dell’ask per il fundraising – di quanti soldi ha bisogno l’azienda prima di raggiungere il breakeven) e i budget operativi per le varie attività (es. piano marketing) permettendo alla startup di gestire efficacemente le proprie risorse, sia essere fisiche, materiali e immateriali e di prepararsi a eventuali difficoltà finanziarie (sensitivity analysis). Su quest’ultimo punto infatti, un piano ben congegnato deve consentire l’identificazione di rischi potenziali e la possibilità di avere driver per lo sviluppo di strategie di mitigazione garantendo che l’azienda sia pronta a rispondere a sfide e opportunità con agilità e velocità.

IL RUOLO DELLA VALUATION

Discorso parallelo è quello che viene portato avanti per la valuation di una startup che, nei fatti, rappresenta il valore economico stimato dell’azienda. Questo processo, che combina dati qualitativi e quantitativi, è fondamentale non solo per determinare il prezzo delle quote da vendere agli investitori (e alimentare le fantasie di exit dei founder), ma anche per comprendere e comunicare correttamente all’esterno il potenziale di crescita dell’azienda. 

Tuttavia, una valuation, per quanto ben eseguita, non restituisce un valore certo e immutabile ma al contrario, essa è intrinsecamente dinamica e soggetta a interpretazioni. Le variabili coinvolte, dalle proiezioni di crescita ai rischi del mercato, sono spesso complesse e suscettibili di revisione, il che rende tutto lo sforzo prono a importanti revisioni. Il numero finale ottenuto, quindi, non è un numero statico, ma un vero e proprio punto di partenza necessario per le successive negoziazioni tra founder e investitori. Gli investitori infatti potrebbero richiedere ulteriori prove del potenziale di crescita o del modello di business, portando a una revisione del valore dell’azienda. Allo stesso modo, i founder potrebbero dover considerare nuove condizioni economiche o cambiamenti nel panorama competitivo, che influenzano il valore percepito della loro impresa.

La valuation, insomma, non è un compito banale ma per navigare questa complessità esistono vari approcci che possono contribuire a fare luce sul modo di determinarne il valore della startup. Di seguito ne vengono riportati 3 che spesso risultano quelli più attenzionati:

  • Metodo dei Multipli di Mercato

Il metodo dei multipli di mercato è uno degli approcci più comuni per valutare una startup perché estremamente semplice ed intuitivo. Questo metodo confronta la startup con aziende simili che operano nello stesso settore e che sono di dimensioni comparabili. Quando si parla di multipli si fa riferimento molto spesso ai multipli di ricavi (rapporto tra il valore di mercato di aziende comparabili e i loro ricavi annuali) o di EBITDA (rapporto tra il valore di mercato di aziende comparabili e il loro EBITDA).

  • Metodo del Discounted Cash Flow (DCF)

Il metodo DCF stima il valore attuale dei flussi di cassa futuri attesi, scontandolo al presente attraverso l’utilizzo un tasso di sconto che riflette il rischio dell’investimento.

Al fine di arrivare al valore finale è quindi necessario stimare i flussi di cassa futuri (free cash flow) e il tasso di sconto appropriato, spesso basato sul costo medio ponderato del capitale (WACC) e infine il valore residuo dell’azienda dal termine del periodo di previsione al futuro (terminal value).

  • Metodo del Venture Capital

Questo metodo si compone di due momenti: “pre-money valuation” (ovvero la valutazione antecedente all’investimento) a cui una volta che viene aggiunto il totale dei fondi immessi dall’investitore segue la “post-money” valuation.

Al fine di realizzare la stima della pre-money valuation è necessario:

  • Stimare l’investimento necessario (definire un ask)
  • Prevedere i dati di revenue e costi della startup
  • Determinare i tempi di exit (es. IPO o M&A)
  • Calcolare il multiplo dell’exit (sulla base di transazioni comparabili)
  • Attualizzare il valore (PV) futuro con un tasso di sconto che coincide con il ROI
  • Determinare la % di quote di proprietà che si vogliono lasciare all’investitore

Per una startup, un business plan robusto è più di un semplice strumento di raccolta fondi e può determinare la buona riuscita o meno di un investimento. La valuation, dall’altra parte, è un processo complesso e dinamico che stabilisce un valore iniziale ma è soggetto a negoziazioni e revisioni.

Tuttavia ciò che risulta evidente è che entrambi questi strumenti sono fondamentali per navigare con successo il proprio percorso imprenditoriale e costruire una base solida per il futuro della startup.

Venture Capital: chi sono e cosa vogliono dalle startup

I motivi che spingono i venture capital ad investire in aziende e startup sono molteplici e spaziano dalla possibilità di monetizzare opportunità ad alto potenziale di rendimento, al sostegno all’innovazione, fino alla diversificazione di investimenti in altre industry per bilanciare i propri portafogli. Non è un segreto che il venture capital rispetto ad altri tipi di investimento, è particolarmente illiquido e rischioso e pertanto il rendimento atteso deve essere significativo per incoraggiare l’investimento. 

In questo contesto, i founder in fase di fundraising, si trovano tra due fuochi. Da una parte la natura e il prodotto della startup devono corrispondere alla tesi di investimento del VC (poiché se non in linea, le probabilità di investimento si riducono notevolmente), dall’altra la stessa startup richiede un investitore che abbia esperienza nel proprio settore di riferimento, specie in quelle situazioni in cui il prodotto/servizio riguarda settori complessi come il deeptech.

Se è vero che il percorso di fundraise di una startup passa spesso per i venture capital, è necessario che i founder inizino cercando di capire come funziona un VC.

In maniera generale la durata media di un fondo VC è di 10 anni; tale arco temporale è suddivisibile in 3 diverse fasi:

  • investimento iniziale (durata 2-3 anni) – in questo periodo il fondo cerca ed effettua attivamente gli investimenti nelle nuove startup.
  • sviluppo del portafoglio (3-5 anni) – in questa fase successiva il VC si concentra sui follow-on e sulla ricerca di nuove opportunità per gli investimenti successivi.
  • exit (2-3 anni) – in questo momento conclusivo, il fondo cerca di uscire dai propri investimenti in quanto ritiene concluso il ciclo d’investimento.

Le società di venture capital possono avere più fondi contemporaneamente (fondi tematici), per cui non è inusuale che raccolgono nuovi capitali ogni 3-5 anni per lanciare nuovi venture. Intuitivamente questo potrebbe portare a pensare che un VC sia quindi portato a investire in un grande numero di startup. Tuttavia, mediamente, il modello di un venture capital non funziona assicurando un ritorno contenuto nel tempo su un alto numero di investimenti, ma esattamente all’opposto i VC privilegiano pochi investimenti alla ricerca dell’outlier – la singolarità – che porti enormi rendimenti (il famoso “100x”).

Questo processo è regolato dalla “power law”, ovvero una percentuale molto piccola di startup porta la maggior parte del rendimenti del fondo. Un esempio è l’investimento di Sequoia in Whatsapp, acquisita nel 2014 per $ 22 miliardi da Facebook, dove il venture aveva investito nel Series A $ 60 milioni, ottenendo alla fine un ritorno di $ 3 miliardi.

Questo è il motivo per cui l’ecosistema startup è ossessionato dagli unicorni (startup non quotate valutate almeno $ 1 miliardo): i VC ne hanno bisogno per sopravvivere. Ogni azienda in cui i VC investono deve avere (ai loro occhi) il potenziale per diventare un unicorno, altrimenti non ha senso in termini di “value for money”.

Date queste premesse quindi, in che modo una startup in fase di fundraising può avere successo con un VC?

Per quanto predire il futuro di una startup (specie in early stage) sia compito assai arduo, esistono alcuni punti che i VC guardano con estrema attenzione quando valutano una nuova opportunità di investimento, ovvero: le persone (team), il prodotto/servizio e il mercato.

L’importanza di un buon business plan sta tutta nella capacità della startup di saper definire e comunicare in maniera chiara e convincere che il team stia lavorando su un prodotto innovativo, all’interno di un mercato con grande potenzialità.

TEAM

Il team è la spina dorsale di qualsiasi startup (“execution is what matter the most”). La capacità di “pivottare” quando necessario e al momento giusto alla ricerca del market-fit, la possibilità di innovare il prodotto/servizio implementando nuove funzioni e individuare nuovi segmenti di mercato è solo frutto dell’impegno delle persone che compongono l’azienda.

Saper navigare eventi avversi e imprevisti con agilità è un requisito fondamentale per chi fa (e vuole fare) startup. I founder più capaci gettano le basi della propria cultura aziendale e della governance dal giorno zero, consci del fatto che l’obiettivo è quello di costruire e guidare un team in grado di sostenere l’azienda, prendere le decisioni giuste e agire rapidamente nei momenti difficili.

PRODOTTO/SERVIZIO

Il prodotto/servizio offerto da una startup rappresenta il cuore pulsante dell’impresa e il principale fattore di attrazione per gli investitori venture capital. Per un VC, l’innovatività, la scalabilità e la capacità di rispondere a un bisogno reale del mercato sono aspetti chiave che vengono valutati con estrema attenzione. In questo contesto, le metriche di traction assumono un ruolo fondamentale, in quanto offrono una misurazione concreta della crescita e dell’adozione del prodotto/servizio da parte del mercato. Metriche quali il tasso di crescita mensile/annuale degli utenti (MRR/ARR), il lifetime value (LTV) dei clienti rispetto al costo di acquisizione cliente (CAC), daily active user (DAU) e il tasso di conversione, sono indicatori vitali che i VC utilizzano per valutare il potenziale di successo di una startup. Una forte traction, dimostrata attraverso dati solidi e in crescita, può significativamente aumentare le possibilità di ottenere investimenti, poiché testimonia la validità del prodotto/servizio e la capacità della startup di generare valore e interesse.

MERCATO

La grandezza e l’attrattività del mercato di riferimento sono altri due elementi cruciali che i venture capital considerano quando valutano un potenziale investimento. Un mercato ampio e in crescita offre le premesse per una scalabilità significativa, elemento essenziale per il successo di una startup e per il ritorno sull’investimento atteso dai VC. Inoltre, un mercato interessante è spesso caratterizzato da una forte domanda insoddisfatta o da opportunità di disintermediazione, dove una nuova entrata può rivoluzionare l’offerta esistente con soluzioni innovative. I VC cercano startup che non solo si rivolgono a mercati ampi, ma che hanno anche il potenziale per diventare leader di mercato o per creare nuovi segmenti di mercato. Pertanto, una comprensione approfondita del mercato di riferimento, inclusa la dimensione del mercato, le dinamiche competitive, le barriere all’ingresso e le tendenze emergenti, è imprescindibile per i founder che cercano di attirare investimenti venture capital.

Il processo di investimento dei venture capital è un meccanismo complesso e selettivo che privilegia la qualità all’ampiezza, la visione strategica alla semplice opportunità di mercato. Per emergere in questo contesto altamente competitivo, i founder di startup devono non solo allinearsi alle aspettative di rendimento e innovazione dei VC ma anche dimostrare di avere una profonda comprensione del proprio prodotto/servizio e del mercato di riferimento. È un gioco di squadra dove la sinergia tra la capacità esecutiva del team, l’unicità e la scalabilità del prodotto e l’ampiezza del mercato definiscono il potenziale di una startup e il successo del fundraise.

Come la strategia può aiutare aziende e startup nel processo di decision-making

La strategia, tanto per le aziende affermate quanto per le startup, rappresenta uno strumento determinante nell’arginare il “self-serving bias” nel processo decisionale. In questo contesto, la strategia serve da guida per valutare l’affidabilità delle informazioni utilizzate, incoraggiare l’introspezione critica per valutare le decisioni passate e i pregiudizi personali. Grazie a una strategia ben elaborata, le aziende possono sviluppare un approccio decisionale più imparziale, informato ed equo.

Il “self-serving bias” è la tendenza a interpretare le informazioni in modo da confermare le proprie convinzioni così da “servire” il proprio interesse personale. In situazioni poco chiare, spesso vengono formulate ipotesi che servono a rafforzare l’ego e l’autostima. Le persone interpretano selettivamente le informazioni per sostenere la propria posizione e trascurano o ignorano le informazioni che contraddicono le loro opinioni. Nel mondo dell’impresa, i pregiudizi egoistici possono portare a prendere decisioni subottimali o addirittura contribuire a conflitti/crisi, in quanto l’azienda rimanendo ferma sulle proprie posizioni, è meno disposta a considerare prospettive alternative, causando così instabilità all’interno della struttura organizzativa.

Per contrastare questo fenomeno e prendere decisioni ottimali (e durature), aziende e startup nel loro processo di decision-making dovrebbero: considerare dapprima la fonte delle informazioni su cui si stanno basano, pensare in modo controfattuale rispetto alle decisioni prese in precedenza e, inoltre, mettere in discussione le proprie ipotesi con differenti if-scenario.

Analizzare ed eseguire un double check dell’appetibilità delle fonti delle informazioni su cui le imprese basano le decisioni, è fondamentale per capire se i dati che si vuole utilizzare siano pertinenti nello scenario di mercato corrente.

Contemporaneamente, impegnarsi in una riflessione “controfattuale” può aiutare le aziende a riflettere sulle scelte passate (cosa si sarebbe potuto fare meglio?), aiutandole ad ampliare la loro prospettiva e a considerare più punti di vista al di là della situazione attuale. Questo tipo di riflessione incoraggia il confronto e aiuta i decision maker ad avere una visione del contesto aziendale più equilibrata. Di fatto, pensando in modo controfattuale, le aziende possono assicurarsi di guardare ai dati esistenti in modo più imparziale.

Infine, le aziende e le startup possono combattere i pregiudizi personali cercando attivamente informazioni che mettano in discussione le loro convinzioni e ipotesi. Questo modo di procedere non è semplice e anzi può risultare scomodo, perché minaccia l’identità e la visione dell’azienda, ma è un passo fondamentale per sviluppare una prospettiva più “sfumata” ed informata.

Tuttavia, evitare i pregiudizi personali è solo metà della medaglia. Se aziende e startup vogliono riuscire ad essere buoni decision-maker, devono anche coltivare tratti comportamentali specifici che li porti ad abbandonare una “visione tattica” e consentano il pensiero strategico. Alcuni tratti fondamentali sono: la capacità di decifrare le complessità delle situazioni, l’abilità di allocazione delle risorse e la precisione nell’esecuzione delle strategie (piani operativi).

L’acume è la prima caratteristica da sviluppare. Si tratta del modo e della capacità di comprendere una situazione e di generare nuove idee per passare dallo stato attuale a quello futuro (desiderato).

Le aziende hanno poi bisogno di “allocazione”. Gli strategic-thinker stabiliscono gli obiettivi, riconoscono i rischi e distribuiscono/allocano le risorse (umane ed economiche) in misura ottimale rispetto ai risultati attesi. 

Tuttavia, la parte di strategia aziendale non è in grado da sola di realizzare gli obiettivi aziendali. Il modo (piano) in cui si attua la strategia determina il successo. La collaborazione è la capacità di lavorare con gli altri di scambiare know-how, dati e intuizioni che aiutano a progredire verso un obiettivo definito è ciò che in ultimo determina il successo o meno della strategia ideata. L’esecuzione comporta l’impiego “disciplinato”, efficiente ed efficace di tutte risorse a disposizione per raggiungere gli obiettivi prefissati.

Arginare il “self-serving bias” e strutturare un pensiero strategico coerente solo consente agli individui di un azienda di prendere decisioni migliori nel lungo periodo, ma modella anche la struttura organizzativa nel breve e lungo termine consentendo la realizzazione degli obiettivi desiderati.

Business Model – L’Esempio virtuoso delle Startup

La strategia all’interno di un’azienda è un tassello fondamentale con cui esprimere il proprio vantaggio competitivo nel mercato, ma quando ci si interroga su come rendere questo vantaggio duraturo ed economicamente sostenibile nel tempo, si finisce a parlare di business model.

Quando parliamo di business model, in sostanza, ci riferiamo ad un set di assunzioni e ipotesi (idealmente di lungo periodo), sulle quali le aziende di ogni settore pianificano i propri ricavi. Queste ipotesi riflettono nozioni sulle preferenze dei clienti, sul ruolo della tecnologia, sulla regolamentazione, sui costi e sui concorrenti di mercato. Spesso le aziende considerano (erroneamente) tali ipotesi intoccabili, finché qualcuno non se ne esce con nuove ipotesi, che funzionano meglio.

Ed è una realtà del recente periodo, quella per cui i business model sono diventati meno “duraturi” di prima. Una volta, business model e value proposition erano fissati per anni, e all’azienda era richiesto di eseguire gli stessi processi meglio dei loro concorrenti. Oggi, invece, i modelli di business sono soggetti a rapidi cambiamenti e, a volta, alla vera e propria distruzione. Il comune denominatore di questo cambio di passo è stato l’avvento e la pervasività della digitalizzazione che ha permesso alle aziende di costruire nuovi strumenti che aumentassero la competizione all’interno di tutti i mercati.

Oggi, le aziende se vogliono sopravvivere devono essere in grado di creare modelli di business che si basino su ipotesi puntuali, suffragate da dati oggettivi e che quindi siano in grado di cambiare, al cambiare del mercato in cui operano. Iterare per innovare è il mantra da adottare per costruire un business model capace di navigare la complessità del sistema economico contemporaneo e costruire un vantaggio competitivo che sia duraturo.

Una categoria che ha la possibilità di approcciare il mercato in questa maniera virtuosa sono le startup, aziende che ancora non hanno trovato la quadra attorno al proprio business model e che per loro natura sono prone alla sperimentazione e all’iterazione e attente a testare il mercato. Questo mix rappresenta un vantaggio rispetto a realtà già stabilite nel mercato, perché lo sforzo per abbracciare il processo di iterazione finalizzato all’innovazione può essere costruito by design dal giorno 0. Questo approccio consente di risparmiare tempo, risorse e di minimizzare i rischi associati all’investimento in un business model non adeguato apportando modifiche tempestive.

La componente più importante rimane quella di analisi del mercato. Testare un business model significa che a partire da un’idea BM si:

  • declina l’idea di BM in una main proposition (per la monetizzazione) e costruire su questa altre minor proposition
  • Lancia il BM sul mercato
  • raccoglie feedback dai potenziali clienti e partner su main proposition e minor proposition.


business model: schema

Per main proposition s’intende l’ipotesi principale su cui si regge il modello di business. Nel caso di un negozio di riparazione per computer, la main proposition sarà la vendita del servizi di pronto intervento per la riparazione dei computer. In riferimento alla minor proposition, s’intende servizi accessori che caratterizzano la riparazione dei computer ma non la definiscono; in questo senso il negoziante potrebbe provare a definire un prezzo diverso nel caso in cui sia un problema di hardware o software, ancora potrebbe vendere pezzi di ricambio per sostituzione invece che ripararli, oppure implementare la vendita di accessori utili (tipo mouse o casse audio) da vendere successivamente alla riparazione. Queste caratteristiche descrivono l’attività principale che è fornire un servizio di pronto intervento per la riparazione del computer e aiutano il commerciante a capire qual è il “gusto” del mercato e in che modo la main proposition debba essere declinata perché gli garantisca il vantaggio competitivo maggiore (misurato in termini di revenue rispetto ai competitor).

Le startup rappresentano un segmento che, per necessità, si trova ad adottare un metodo che risulta efficace tanto per le sue esigenze che per quelle di aziende più mature e già avviate. Adattare il business model in base ai feedback degli utenti e ai dati raccolti sul mercato è la chiave che consente di adottare una traiettoria di crescita più solida e assicurarsi una permanenza duratura all’interno del proprio settore.