Lo sfruttamento commerciale delle opere di pubblico dominio e il codice dei beni culturali: il caso Ravensburger.

Il tema dell’utilizzo commerciale di opere d’arte di pubblico dominio è stato al centro di una recente controversia legale tra le Gallerie dell’Accademia di Venezia e le aziende tedesche Ravensburger AG, Ravensburger Verlag GMBH e la loro sede italiana, rappresentata da Ravensburger S.r.l. La questione riguardava l’utilizzo dell’immagine dell’Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci, un’opera di pubblico dominio conservata presso le Gallerie dell’Accademia di Venezia, per produrre e vendere puzzle senza autorizzazione o pagamento di un corrispettivo.

L’ordinanza emanata dal tribunale di primo grado di Venezia, che ha vietato ai convenuti di utilizzare l’immagine dell’opera a fini commerciali e li ha condannati al pagamento di una penale di 1.500 euro al giorno in caso di ritardo nell’esecuzione dell’ordinanza cautelare, ha suscitato molte perplessità e domande sull’applicazione del concetto di pubblico dominio e sulla compatibilità delle leggi italiane con quelle europee in materia di diritto d’autore.

In primo luogo, è importante chiarire il significato di pubblico dominio. Si tratta di un insieme di opere artistiche, letterarie, scientifiche e tecnologiche che non sono più soggette alla protezione del diritto d’autore, in quanto il periodo di tutela previsto dalla legge è scaduto o perché l’autore ha scelto di non tutelarle. Le opere di pubblico dominio, almeno astrattamente, possono essere utilizzate liberamente da chiunque, senza bisogno di richiedere autorizzazioni o pagare corrispettivi. 

Difatti, l’art. 14 della Direttiva (UE) 2019/790 dispone che: “Gli Stati membri provvedono a che, alla scadenza della durata di protezione di un’opera delle arte visive, il materiale derivante da un atto di riproduzione di tale opera non sia soggetto al diritto d’autore o a diritti connessi.”

Tuttavia, il caso del puzzle della Ravensburger raffigurante l’Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci dimostra che l’applicazione pratica del concetto di pubblico dominio può essere più complessa di quanto si pensi. Soprattutto qualora vi siano norme nazionali in aperto contrasto con i principi Comunitari. 

Infatti, in quella che sembrerebbe essere una norma in netto contrasto con il principio su esposto, secondo il Codice dei Beni Culturali Italiano, le riproduzioni digitali fedeli di opere del patrimonio culturale – comprese quelle di pubblico dominio – possono essere utilizzate a fini commerciali solo dietro autorizzazione e pagamento di un corrispettivo. 

Ciò significa che le istituzioni culturali che custodiscono opere di pubblico dominio hanno il diritto di richiedere autorizzazioni e corrispettivi per l’utilizzo commerciale delle riproduzioni digitali fedeli delle opere, anche se queste non sono più gravate da diritto d’autore. Pertanto, la decisione di richiedere l’autorizzazione e il pagamento di un compenso è lasciata alla discrezione di ciascuna istituzione culturale, come previsto dagli articoli 107 e 108 del Codice dei Beni Culturali. 

Preme da ultimo sottolineare come il caso in esame non sia un evento isolato, è infatti di solo pochi mesi fa il caso del Museo degli Uffizi che ha fatto partire un’azione legale contro una nota casa di moda francese per illecita riproduzione dell’immagine della Venere di Botticelli.

In conclusione, occorre rilevare come questi casi siano destinati a lasciare dietro di sé numerose questioni etiche oltre che giuridiche come la grande incertezza sull’uso del patrimonio culturale nell’intero mercato unico, il rischio di ostacolare la creatività degli artisti, e un dominio pubblico ridotto e impoverito. Per affrontare questi problemi, ci si augura che la Corte di giustizia europea abbia presto l’opportunità di chiarire che il pubblico dominio non può essere limitato, specialmente, da norme estranee al diritto d’autore e ai diritti connessi, che compromettono il chiaro intento del legislatore europeo di sostenere il pubblico dominio.